Abbiamo fino ad adesso descritto le varie tradizioni vogliamo porre l’accento su di un particolare importante. Fin dai tempi antichi le tradizioni iniziatiche si trasfondono le une nelle altre. Non è un caso che ad esempio che la Bibbia come noi la conosciamo sia stata scritta in lingua babilonese, in origine la bibbia ebraica il “pentateuco”, cioè i primi cinque libri, era trasmessa oralmente in Aramaico ma durante la prigionia a Babilonia, il profeta Ezechiele decise che era arrivato il momento di mettere nero su bianco, perché esisteva il rischio che gli ebrei perdessero la loro identità culturale; e questo venne fatto nella lingua parlata dal popolo in quel momento un misto di lingua babilonese con elementi ebraici. La stessa lingua è usata per il “Talmud” che è la raccolta dei precetti e dei commentari biblici. Possiamo definire questa lingua uno “yiddish” come si sarebbe detto in seguito, prendendo a prestito il termine indicato per la lingua parlata dagli ebrei dell’Europa orientale, gli aschenaziti, che è un misto di tedesco ed ebraico. Non bisogna pensare che si tratti Perù di una sorta di dialetto essa ha invece dignità di una lingua. Esiste una ampia letteratura anche contemporanea ed è una lingua parlata dagli ebrei di New York ed è molto usata in Israele.
San Paolo e i Soggiornanti
Detto questo dobbiamo ricordare che anche uno dei pilastri del cristianesimo, l’apostolo Paolo ha operato un sincretismo di questo genere perché se andiamo a leggere le epistole vediamo che quello che a prima vista può sembrare greco, in effetti, proprio greco non è, Paolo appartiene a una comunità ebraica della diaspora che pensa e parla in greco (in giudeo-greco) esattamente come i sefarditi parleranno in ladino (o giudeo-spagnolo) e gli aschenaziti in yiddish. Una comunità che legge e cita la Bibbia nella traduzione in greco, come fa Paolo ogni volta che ne ha bisogno. Le ragioni per cui Paolo ne facesse parte, è rimasta singolarmente in ombra nella storia del giudaismo. La comunità cui Paolo apparteneva, ha prodotto non solo Filone e Giuseppe Flavio, ma molti altri. Essa era imbevuta di cultura greca e leggeva la Bibbia nella lingua di Aristotele e di Platone. La versione in greco della Bibbia è detta la “Bibbia dei settanta”. Non vi è nulla di più ebraico che abitare una lingua d’esilio e lavorarla dall’interno fino a confonderne l’identità e a farne altra cosa che una lingua grammaticale: lingua minore, gergo (come Kafka chiamava lo yiddish) o lingua poetica, come nei canti ebreo-andalusi di Yehudah ha-Levi e Mosheh ibn Ezra ritrovate nelle sinagoghe del Cairo, in ogni caso, Perù, lingua materna, anche se, l’ebreo come vita linguistica si sente sempre in terra straniera e consapevole che la sua vera patria linguistica è altrove, nell’ambito linguistico della lingua santa, inaccessibile al discorso quotidiano. La lingua “ieratica” è una lingua importante ma che si piega con difficoltà alle espressioni della vita quotidiana, non può essere usata ad esempio tra madre e figlio, negli affari e negli affetti. Fatalmente anche volendo conservare un propria identità proprio per ragioni di quotidianità la lingua si stempera nel parlare comune in una sorta di sincretismo linguistico. Si tratta Perù di molto più del problema linguistico, Mosè ad esempio era egiziano (se non lo vogliamo considerare un personaggio storico anche come archetipo va benissimo) e come tale ha acquisito la cultura egizia integrando la religione dei padri, in Mesopotamia ha acquisito la mistica del fuoco sacro della gerarchia celeste e degli innumerevoli nomi divini. Se vogliamo cogliere lo spirito della religione egizia il suo misticismo dobbiamo trascurare i geroglifici e studiare la Kabala ebraica perché parte della cultura si è trasfusa nell’ebraismo, lingua viva e continuità iniziatica. Un altro pezzo ci arriva dal sincretismo greco-gnostico. I Tolomei governano l’Egitto dopo la conquista di Alessandro Magno si integrano nella cultura acquisiscono i segreti dei templi e li trasmettono ai discendenti. Cleopatra ad esempio era della dinastia dei Tolomei, I detti dei padri del deserto scritti da asceti cristiani tra il 150 ed il 400 d.C.sono molto più egizi di quanto non sembri a prima vista.
È in questa prospettiva che occorre guardare alla lingua di Paolo e di quella comunità giudeogreca, che costituisce, nella diaspora ebraica, un capitolo altrettanto importante della cultura sefardita fino al XVIII secolo e di quella aschenazita nel XIX e XX secolo. Lo stile di Paolo, globalmente considerato, non è ellenico (Norden, 509) e, tuttavia, esso non ha nemmeno un colore propriamente semitico. né greco né ebraico né idioma profano, proprio questo rende la sua lingua così interessante. Questa lingua è la lingua del cristianesimo non solo di quello delle origini ma anche di quello successivo. Il cristianesimo conserverà la sua connotazione aristotelica fino all’arrivo di un altro sincretismo quello islamico il quale acquisisce via via la cultura yemenita e sabea, cultura Sufi dai persiani la cultura cristiano copta che già era stata acquisita dal cristianesimo, e la cultura indiana che la influenzerà prepotentemente, tanto che, ancora oggi ad esempio noi chiamiamo numeri arabi quelli che in realtà sono indiani. L’influenza araba ci arriverà attraverso la Spagna e sarà molto forte nel rinascimento. Tutta questa digressione ha lo scopo di segnalare come la ricerca dei soggiornanti alluda alla eterna ricerca dell’uomo. Nella tradizione dell’arco reale ritroviamo una tradizione perduta questa tradizione persa più volte nel corso della storia dell’umanità rimane nel nostro inconscio collettivo. Lo schema è sempre lo stesso, sullo scacchiere della totalità diviso in dodici settori ai quattro angoli del mondo materiale noi iniziamo il nostro viaggio interiore che dovrebbe essere un pellegrinaggio alla ricerca di un tesoro incomparabile ed invece fin dal primo momento si rivela un viaggio interiore che porta alla nostra trasformazione interiore. lungo un percorso composto da prove iniziatiche oggetti simbolici che si ricollegano a componenti interiori fino alla scalata di una montagna sacra con la prova finale, che ci introduce nel giardino dell’eden, nel tempo e col variare delle culture, i dodici simboli della totalità diventano il consesso dei dodici dei greci o la ruota dello zodiaco dei mesopotamici ed la divinità che perpetua la creazione che corre facendo girare il cielo e le sue costellazioni attorno alla stella polare come fa lo scoiattolo con la sua ruota, poi nel tempo diventano le dodici tribù d’Israele ed in seguito i dodici apostoli, la montagna sacra diventerà il candido altare al centro del tempio, alla sommità del quale cerchi triangoli e nomi ineffabili dovranno provocare quella illuminazione sulla via di Damasco che è lo scopo delle nostre fatiche. Parte degli eventi umani che stiamo trattando restano indimenticabili. Ci riferiamo a tutto ciò che, nella vita collettiva come in quella individuale, viene in ogni istante dimenticato, alla sterminata massa di ciò che va in esse perduto.
Malgrado la fatica degli storici, degli scribi e degli archivisti. Ciò che va perduto è infinitamente più grande di ciò che può essere raccolto negli archivi della memoria. Ma questo caos informe del dimenticato non è inerte né inefficace al contrario, esso agisce in noi con non meno forza della massa dei ricordi coscienti, anche se in modo diverso. Vi sono una forza e un’operazione del dimenticato, che non possono essere misurate in termini di memoria cosciente né accumulate come sapere, ma la cui insistenza determina il rango di ogni sapere e di ogni conoscenza. Ciò che il perduto esige, non è di essere ricordato, ma di restare in noi e con noi in quanto dimenticato, in quanto perduto – e unicamente per questo, indimenticabile. Di qui l’insufficienza di ogni relazione al dimenticato che cerchi semplicemente di restituirlo alla memoria, di iscriverlo negli archivi e nei monumenti della storia, o, al limite, di costruire per esso un’altra tradizione e un’altra storia. Occorre ricordare che la tradizione dell’indimenticabile è piuttosto, ciò che contrassegna ogni tradizione con un marchio di qualità. Ciò che rende storica ogni storia e tramandabile ogni tradizione è appunto il nucleo indimenticabile che essa porta dentro di se. L’alternativa qui non è fra dimenticare e ricordare, essere inconsapevole e prendere coscienza: decisiva è soltanto la capacità di rimanere fedeli a ciò che – pur incessantemente dimenticato deve restare indimenticabile, esige di rimanere in qualche modo con noi, di essere ancora per noi, in qualche modo possibile. I soggiornanti sono qualcosa di più di una leggenda, sono il proiettarsi dell’essenza dell’umanità. le culture si avvicendano le une alle altre sul palcoscenico della storia, col tempo non saranno che polvere, ma ci sarà sempre qualcuno che cercherà di ritrovare il tesoro perduto, finché resterà tempo.